Ogni classicista che si rispetti ricorderà l’imbarazzo di dover tradurre le prodezze sessuali del sovrano degli dèi. Ormai da tempo immemore le e gli studenti, di generazione in generazione, sono inevitabilmente chiamati ad affrontare versioni che vedono Zeus giacere, intrattenersi, congiungersi, indugiare lascivamente in rapporti sessuali con la donzella di turno. Arzigogoli linguistici come questi hanno un conclamato valore eufemistico e, in quanto tali, rispondono a un certo disagio. L’eufemismo altro non è che la reazione linguistica a un termine interdetto poiché sanzionato da una norma sociale, da inibizioni inconsce o da entrambe. Così, sin dalla primissima infanzia, le norme di buona educazione ci insegnano che non si dice sesso ma si fanno quelle cose lì, o si hanno rapporti coniugali, ma la norma estrinseca viene col tempo a interiorizzarsi e la censura sociale diventa inevitabilmente inibizione personale.
Sandor Ferenczi, allievo di Freud, motiva la difficoltà di pronunciare termini sessuali da parte dei suoi pazienti con il potere regressivo/allucinatorio delle parole oscene che costringono chi le pronuncia, o le ascolta, a immaginare concretamente la cosa a cui esse si riferiscono. In questo senso, secondo lo psicanalista, pronunciare un’oscenità equivale a sferrare un attacco, un’aggressione sessuale volta a mettere a nudo l’interlocutore o l’interlocutrice.
Notevole è il fatto che la carica perturbante si manifesta solo con le parole della lingua materna e non, o quantomeno in misura esponenzialmente ridotta, con i termini stranieri o con quelli scientifici. La scarica diretta del termine interdetto nello scambio comunicativo produce un disfemismo, diretto antonimo dell’eufemismo che trae la sua motivazione dalla primordiale attrazione dell’uomo per l’assenza di limite.
È necessario sottolineare in partenza che, seppure la terminologia tecnica lo permetta, affermare che un termine sia di per sé un eufemismo non è corretto. Semmai si dirà che una parola ha valore eufemistico, infatti: non esistono eufemismi assoluti, poiché l’eufemismo non è una qualità intrinseca della parola ma una proprietà acquisita e determinata su base socioculturale, un concetto posizionale che varia nel tempo e nello spazio.
Di qui l’importanza della linguistica che, come vedremo, si pone come luogo di osservazione privilegiato nel disvelamento delle dinamiche socioculturali e stereotipiche insite in ciascuna cultura.
Il campo semantico della sessualità non è certo l’unico a essere soggetto a una interdizione linguistica, basti pensare all’interdizione sociale che accompagna termini di professioni come bidello, sostituito dall’acronimo personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario), o termini designanti gruppi umani come negro, che, a partire dagli anni Settanta, sulla scia delle parole-chiave black e coloured rivendicate dalle lotte dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti, è stato sostituito da nero o di colore. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito se poi si considerano l’interdizione di decenza, che impone di velare eufemisticamente i termini relativi ai bisogni fisiologici umani, e quella relativa ai difetti fisici e morali, che impone di riferirsi a una persona esteticamente non gradita con eufemismi che sfruttano la figura retorica della litote (non è una bellezza), magari con l’aggiunta di circonlocuzioni ironiche come però è simpatico.
L’interdizione sessuale è, tuttavia, una tra quelle più pervasive e interiorizzate, non solo perché, come abbiamo visto, pesca dall’inconscio, ma anche e soprattutto per una ragione di ordine sociologico.
I linguisti K. Allan e K. Burridge rintracciano l’origine del tabù della sessualità, e in particolare dell’interdizione che grava sul corpo della donna, nella preoccupazione, tutta maschile, di assicurare la sopravvivenza del patrimonio genetico e, al contempo, di preservare la concordia e l’ordine sociale. L’incertezza sulla paternità della prole provocava, dunque, fortissimi conflitti sociali all’interno delle comunità rendendo necessaria una progressiva azione di depotenziamento della carica sessuale del corpo femminile. Tracce residuali della preoccupazione di tramandare il proprio corredo genetico sono ancora ravvisabili in espressioni designanti il sesso maschile: i preziosissimi gioielli di famiglia.
Inoltre, il lessico della sessualità gode, nella nostra lingua, di una peculiare condizione di ambivalenza: da una parte è soggetto a fortissima interdizione e necessita di essere velato da una copertura eufemistica, dall’altra costituisce il serbatoio linguistico ideale da cui attingere l’esclamazione volgare.
La tendenza, tutta italiana, di attingere dal lessico della sessualità per l’imprecazione e l’invettiva non è tuttavia replicata nel resto delle lingue europee: il danese, ad esempio, preferisce ricorrere a termini che insistono sull’idea di essere fagocitati da qualcosa di spaventoso come satanedme “che il diavolo mi mangi” e kraftedme “che il cancro mi mangi”; il lituano utilizza termini legati alla figura del demonio e alla sfera scatologica come po velniais, “al diavolo” e šūdas, “merda”, tendenza replicata dalle lingue ugrofinniche che pure ricorrono all’immaginario demoniaco (perkele, piru, saatana).
Il ricorso alla sfera scatologica è frequente nelle lingue europee, in particolare in ambito francofono, e non solo: secondo Frank McDermott, socio della McDermott Associates Inc., un’azienda americana che produce diverse componenti degli aerei civili, merda è l’ultima parola più frequentemente attestata dai rinvenimenti delle scatole nere recuperate in seguito a disastri aerei. L’inglese condivide con la nostra lingua la scelta del serbatoio lessicale (fuck!) replicando anche l’asimmetria sessista per cui di una donna tutta d’un pezzo si dice che she’s got balls, mentre a un uomo di cui si vuole colpire la virilità si dà della fighetta (pussy, cunt). L’unica differenza tra inglese e italiano sta nell’uso dell’espressione you’re a dick/prick equivalente del nostrano sei un cazzone. In entrambe le lingue l’uso dell’organo sessuale femminile nell’invettiva è ammesso per entrambi i sessi e sta sempre a indicare qualcosa di sudicio e spregevole, mentre l’organo maschile viene bonariamente utilizzato per dare dell’idiota al prossimo. Tuttavia, il ricorso al membro è ammesso in inglese solo in riferimento ad un interlocutore maschile, mentre in italiano è possibile dare della cazzona ad una donna.
Rispetto a parole che abbiamo visto essere foriere di un profondissimo turbamento, la lingua svolge un’azione salvifica. Infatti, attraverso quella che Roman Jakobson chiama “funzione poetica” del linguaggio, l’indicibile diventa dicibile, la comunicazione, il contatto tra soggettività a confronto è reso possibile senza alcun attacco alla sensibilità altrui. La funzione poetica si attiva ogni qual volta il messaggio è strutturato, in termini di complessità, in maniera tale da richiedere una decodificazione attenta da parte del destinatario che è chiamato ad interpretarlo. La creazione di un sostituto eufemistico permette di distogliere l’attenzione dal referente e di focalizzarla interamente sul messaggio. L’eufemismo, con tutto il caleidoscopio di forme con cui si presenta, gioca continuamente con questa proprietà della lingua, cosicché per via di una somiglianza metaforica la vagina diventa all’occorrenza un ortaggio (patata) o un innocuo animaletto (passera, topa, farfallina), la sineddoche permette di riferirsi al ciclo mestruale nei termini di quel periodo lì e attraverso la metonimia non c’è più bisogno di ricorrere alla parola masturbazione, basta dire che ci si tocca.
In definitiva, l’eufemismo, come scudo a protezione del dialogo e del contatto tra alterità, e il disfemismo, come arma volta a offendere e a penetrare le difese dell’interlocutore, altro non sono che parte dell’equipaggiamento armato con cui la lingua sfida il timore del dire e sottrae l’espressione di un pensiero al silenzio.
Per saperne di più:
Allan K., Burridge K. (1991), Euphemism & dysphemism: language used as shield and weapon, New York.
Appiani M. (2010), Il pudore nel linguaggio. Il tabu linguistico: un’interpretazione psicoanalitica, Milano.
Tartamella V. (2016), Parolacce. Perché le diciamo. Cosa significano. Quali effetti hanno, Milano.