Scheda di approfondimento
L’interdizione, oggetto di studio di linguisti, psicologi e antropologi, può definirsi «la coazione a non parlare di una data cosa o ad accennarvi con termini che ne suggeriscano l’idea pur senza indicarla direttamente. Tale interdizione può venirci imposta dall’esterno oppure essere un fatto interiore. Essa è comunque il momento psicologico, la motivazione di una serie di comportamenti linguistici» (cfr. Galli de’ Paratesi 1969, p. 25) tesi ad evitare, per lo più mediante sostituzione, l’uso di certe parole.
Per riferirsi alle implicazioni linguistiche connesse col fenomeno dell’interdizione, cui nel linguaggio non specialistico si è soliti riferirsi genericamente col termine di tabù, (il mondo anglofono tende però a preferire euphemism), Nora Galli de’ Paratesi, preferisce distinguere tra il termine colpito da interdizione, cui si riferisce con eufemismo, e il/i termine/i di sostituzione, cui si riferisce impiegando sostituto eufemistico, riservando, invece, tabù al caso particolare della sfera magico-religiosa.
Ciò che è certo è che ciò che in polinesiano è espresso attraverso questa parola non sembra trovare una precisa corrispondenza terminologica in alcuna delle lingue occidentali, dal momento che la semantica di tabù condensa in un unicum ciò che normalmente si trova denotato per mezzo di concetti vari, che rimandano, rispettivamente, alla sfera del sacro, del magico, del proibito, dell’immondo.
Secondo Freud, che in Totem e tabù parla del tabù come di un «Comportamento ambivalente dell’individuo verso un certo oggetto, anzi verso una certa azione che lo riguarda» (Torino 1969 ediz. orig. 1912), e che glossa la parola con ‘timore sacro’, la semantica della parola sembra richiamare tre ordini di nozioni, relativi rispettivamente al carattere sacro (da intendersi nel senso di lat. sacer) di una persona o cosa; all’attrazione naturale esercitata da questa persona o cosa dalla quale scaturisce il senso di proibizione (come, ad esempio, nel caso del sangue, verso cui l’uomo si sente fortemente spinto e che pertanto trattiene lontano da sé per mezzo della proibizione); alle conseguenze per la violazione di questa proibizione.
Destinati spesso a sopravvivere agli stessi stadi culturali che li hanno originati, i tabù comportano frequentemente una controparte, sul versante linguistico, consistente nella tabuizzazione dei nomi con cui si designano le entità tabù (conseguenza, com’è evidente, della piena identificazione tra parola/designans e cosa/designatum).
In risposta a questo divieto di designazione, il parlante si organizza approntando un ventaglio di mezzi di sostituzione variabili e di complessità proporzionale al suo grado culturale e al tono della conversazione (formale o informale): questi mezzi mostrano, altresì, tutte le caratteristiche della stratificazione e della variabilità linguistica e risultano, per conseguenza, analizzabili in termini di diastratia e diafasia, oltre che di semantica (lessicale e frasale).
Fa però da contraltare a questa evidente tendenza alla censura linguistica la probabilità che, in un momento di forte collera, diminuendo la capacità di autocontrollo, possano affiorare alla coscienza ed erompere nell’enunciato i termini più efficaci perché in genere maggiormente connotanti, le parole proibite.
In merito alla complessità dei moduli di sostituzione, proporzionata alla forza dell’interdizione, va detto che ci si può trovare innanzi ad un ventaglio di scelte compreso tra la semplice alterazione fonetica (che in italiano colpisce quasi esclusivamente i fonemi post-tonici e ha lo scopo di avvicinare la parola interdetta ad un’altra di altro significato o anche inesistente che richiami però quella che non si vuole pronunciare in modo da non turbare l’interlocutore: si spiegano così it. cacchio, cavolo, kaiser per cazzo) e la pausa (si cfr. anche le interazioni, con le quali si riempie il vuoto corrispondente al termine taciuto). Estremi, questi, tra i quali occorre immaginare tutto un insieme di soluzioni atte a sfumare gli aspetti più sgradevoli di una parola (nell’attenuarne, altresì, il potere evocativo) o a ricondurne la semantica ad una categoria più ampia.
Frequente è anche l’uso del pronome non anaforico (privo altresì di un punto di attacco, ossia un elemento precedentemente introdotto nel testo cui il pronome si riferisce); la soppressione del soggetto, che determina un uso quasi impersonale del verbo; o il ricorso a perifrasi e giri di parole rispondenti alla comune esigenza non solo di evitare i termini inquisiti, ma di non richiamare neppure troppo apertamente il concetto cui alludono.
Sulla base di tutte queste premesse, si definirà lessico eufemistico ‘il risultato complessivo che si genera in risposta all’interdizione ricorrendo all’uso di mezzi linguistici’.
Al lessico eufemistico sarebbe, d’altra parte, possibile affiancare, come si è accennato, un insieme di espedienti para ed extralinguistici (si pensi all’univoco contenuto semantico di gesti come le corna, impiegate in senso apotropaico; o il toccarsi la fronte per indicare una persona folle, azione che ha trovato una vera e propria forma lessicale nel toscanismo tocco e nell’ it. toccato), operativi ed efficaci soprattutto nell’ambito della cosiddetta lingua d’uso o, comunque, laddove ci sia un certo grado di familiarità tra gli interlocutori.
Si pensi, ad esempio, nel caso del paralinguaggio, all’uso dell’intonazione che, accompagnata ad un’espressione velata, ha l’effetto di rimandare a significati di maggiore crudezza mediante la variazione tonale.
Il ricorso, inoltre, ad un tono impersonale e distaccato (asettico, per così dire) consente persino di citare apertamente il vocabolo interdetto senza ricorrere alla sostituzione.
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