a cura di Samantha Leone
«La mamma dice che è vergogna» (Oggi, 1979).
Queste parole, pronunciate alcuni anni fa da una bambina in risposta a una domanda sugli organi genitali, rivelano quanto gli individui, tramite il rapporto con la società, assimilano il giudizio secondo cui una parola sia da evitare perché vergognosa o pericolosa e spontaneamente si censurano, creando «una fermata che sfrutta la capacità immaginativa dei soggetti al fine di dare significato e valore alle loro interazioni sociali» (Appiani 2004, p. 17).
I metodi, moduli di sostituzione o sostituti eufemistici, che vengono usati per aggirare o superare l’interdizione sono gli agenti più importanti che riguardano il rimodellamento del linguaggio, in quanto le parole interdette vengono accantonate o escono dal vocabolario, mentre entrano nel lessico parole nuove o altre già esistenti aumentano la loro valenza semantica.
Verranno ora presentati i principali moduli di sostituzione riguardanti il Coso e la Cosa. L’ineffabilità, che consiste nella soppressione del termine interdetto senza però una precisa sostituzione: questa si può avere per omissione, sia nei testi scritti (con i puntini sospensivi) sia nei testi orali attraverso una forte carica mimica; per abbreviazione (es. che c. vuoi?); attraverso il cosiddetto eufemismo zero, o rifiuto esplicito di usarne il nome (parole irripetibili); con pronomi personali o dimostrativi spesso ormai cristallizzati in espressioni fisse (es. darla, usarlo); o tramite pronomi senza funzione anaforica, che rimandano, altresì, a qualcosa che si sottintende, come nel caso di toccare proprio lì.
L’alterazione fonetica, o parafonìa, è un procedimento che si ritrova solo nell’eufemismo, è comune a tutte le lingue ed è attestato sin dagli stadi più antichi delle parlate indoeuropee: per questo fenomeno linguistico possono subire alterazione i fonemi subterminali, cioè quelli dopo le prime sillabe, soprattutto a partire da quella accentata (es. cavolo, cacchio, kaiser, cazzarola).
La sineddoche nomina la cosa inibita sfruttando un concetto più ampio, che abbia cioè con quella un rapporto quantitativo del tipo “il generale per il particolare” (es. sesso per non dire genitali), ammettendo anche il procedimento inverso. La metonimia è invece quella figura retorica che consiste nel sostituire un termine proprio con un altro appartenente allo stesso campo semantico e che abbia col primo un rapporto del tipo “il contenente per il contenuto” oppure “il simbolo per la cosa simboleggiata”, quindi sfruttando il rapporto di dipendenza (es. basso ventre invece di pene).
Ma la figura più produttiva tra le sostituzioni eufemistiche, nonché procedimento molto usato in italiano e non solo per usi eufemistici, è sicuramente la metafora, la quale operando attraverso il paragone con una cosa non interdetta svuota la parola proibita della sua negatività, suscitando così una sensazione più gradevole.
Per i genitali maschili sono frequenti metafore tratte da oggetti (es. pacco, manico, pendolo), attrezzi da lavoro (es. mazza, manganello), armi (es. clava), strumenti musicali (es. flauto, piffero), piante e frutti (es. banana, cetriolo, pisello), altre parti anatomiche, spesso coinvolte in un doppio processo eufemistico in quanto possono anche assumere una connotazione per antonomasia, dove un nome generico è collegato al termine interdetto per una sua qualità o caratteristica che in qualche modo lo accomuna a quest’ultimo (es. terza gamba, membro, braccio, muscolo).
Per i genitali femminili è facile trovare richiami ad armi (es. fodero, guaina), strumenti musicali (es. chitarrina), monete (es. patacca), luoghi (es. tana, bosco, grotta, aiuola, bagnasciuga), piante e frutti (es. fica), parti del corpo (es. grembo, labbra), cibi e bevande (es. ciccia, gnocca).
Menzione a parte meritano le metafore animistiche, legate anche alla visione del concepimento da parte di cicogne e cavoli, dovute al fatto che queste parti vengono avvertite come qualcosa di vivo e movimentato tanto da essere facilmente paragonate ad animali, come nel caso di uccello, pesce, biscia, anguilla o gatta, topa e passera, p’ccion (dialettismo pugliese per piccione). Inoltre parole come grillo e cicalina, oltre ad essere tipiche del linguaggio animistico, vengono riscontrate anche nel baby talk, ovvero fanno parte del «lessico usato per parlare di sesso e di escrementi con i bambini» (Tartamella 2006, p. 71).
In un saggio del 1911, lo psicoanalista ungherese Ferenczi spiega che «una parola oscena possiede il potere singolare di costringere chi l’ascolta a immaginare concretamente l’oggetto, l’organo o l’atto sessuale ch’essa definisce» e quindi, al fine di evitare resistenze o reazioni di pudore da parte del malato, conviene utilizzare “allusioni parziali” o termini tecnici per menzionare gli organi sessuali: allusione, spesso con valenza ironica, si riscontra nella perifrasi di inequivocabile forma eretta per l’organo sessuale maschile, mentre per gli organi femminili si preferiscono spesso le parole dotte clitoride (parola di radice indoeuropea che significa originariamente ‘collinetta, rilievo’) vagina (‘fodero (delle armi da taglio)’).
Ma cosa, in uno stesso momento storico, spinge a produrre tutte queste varianti per un solo concetto interdetto? E cosa veicola la scelta tra le stesse?
Tutto ciò si deve alla “modulazione stilistica”, che inscrive le diverse occorrenze in determinati contesti o circostanze, intendendo infatti con “stile” il diverso registro con il quale si intrattiene un discorso, sia esso familiare, distaccato, scherzoso, scritto o parlato. Per questo esistono varianti dialettali, sociali e di “cerchia”, ovvero quelle specifiche dei diversi ambienti lavorativi e quindi dei rispettivi linguaggi di settore, oltre che quelle di sesso e di età, che dimostrano come le nuove generazioni sono più tendenti alle innovazioni, mentre le più anziane restano per lo più conservatrici.
Per quanto riguarda la variazione diastratica, ovvero quella legata ai diversi strati sociali, si osserva che è per lo più prerogativa degli strati colti l’uso eufemistico di termini dotti e scientifici e di quelli provenienti da lingue straniere, di contro nel linguaggio popolare sono numerosi termini o pronomi molto generali e sostituti per ineffabilità.
Anche nel linguaggio femminile possono riscontrarsi delle divergenze che dipendono dal grado di emancipazione e formazione culturale: le donne meno scolarizzate, dedite alla vita casalinga, mostrano un linguaggio conservatore, completamente ignaro di imprecazioni e di bestemmie ma tendente a un linguaggio affettivo connotato dalla frequente formazione di parole infantili; le donne che hanno invece uno stile di vita più vicino a quello dell’uomo hanno a disposizione una vasta gamma di sostituzioni, prediligendo alterazioni fonetiche o formule meno dirette.
Date queste coordinate, ogni cultura sviluppa i propri moduli di sostituzione autonomamente, sulla base di un proprio sentire. Ecco perciò ua serie di eufemismi, basati per lo più sulla metafora, tipici di altre lingue.
Per vagina: papaya (Cuba), moule (‘cozza’, in francese), gli olandesi liefdesgrot (‘grotta dell’amore’) e vleesroos (‘rosa di carne’); si riferisce invece al clitoride pipote (che rinvia ad un seme di girasole) usato in Spagna.
Per pene invece: cavus (‘sergente’) o ortabacak (‘gamba centrale’) in turco, bitte (che richiama la colonna per le cime d’ormeggio nei porti) in Francia. Nei paesi sudamericani si tende invece a privilegiare la figura della personificazione: l’organo viene così ad assumere antroponimi quali Carlitos (Colombia), Pepe (Cuba), Sancho (Messico), Pepito (Cile), Juanito (Perù) (per questi esempi la fonte è Tartamella, Parolacce, s.vv.).